Tra la fine del 2013 e l’inizio di questo 2014, i giornali e i tg hanno dedicato ampio spazio alla storia di Caterina Simonsen, la giovane studentessa di veterinaria che, affetta da ben quattro malattie rare, si è pronunciata a favore della Sperimentazione animale, scatenando le ire degli animalisti.
Ma andiamo con ordine. Tutto comincia nella settimana di raccolta fondi promossa da Telethon, la nota associazione che si occupa di ricerca scientifica su malattie rare e che puntualmente, ogni anno, si scontra con i tentativi di boicottaggio e con le polemiche scatenate dai movimenti animalisti. Le critiche riguardano la struttura e l’efficacia del sistema Telethon, ma dipendono fondamentalmente dal fatto che Telethon, esattamente come chiunque faccia ricerca medico-scientifica in Europa, basa i propri studi sul ricorso alla Sperimentazione sugli animali. Il quadro si completa se pensiamo che i medesimi movimenti che criticano aspramente Telethon, uno su tutti il Partito Animalista Europeo, sono grandi sostenitori del metodo Stamina, che, diversamente dalle ricerche di Telethon, allo stato attuale non ha ancora avuto alcun tipo di riscontro scientifico.
Questo strano contrasto, porta Caterina a pubblicare un video-messaggio in cui argomenta la sua posizione a favore della ricerca scientifica vera, quella che allo stato attuale comprende la sperimentazione animale. Il video viene segnalato alla pagina Facebook A favore della sperimentazione animale, e viene ricondiviso e commentato anche altrove. È qui che parte la fiera degli insulti e degli auguri di morte, che raggiungono il loro apice dopo che Caterina partecipa all’iniziativa #DenunciateAncheMe, promossa sempre dalla pagina A favore della sperimentazione animale all’indomani della denuncia sporta dal PAE contro l’onorevole Elena Cattaneo, colpevole non si sa bene di cosa.
Progressivamente, si è andata anche cristallizzando l’accusa (classicissima) di chi vorrebbe Caterina legata alla lobby del farmaco o comunque sponsorizzata da qualche gruppo di pressione pro-sperimentazione/laboratorio di ricerca, con una punta di ridicolo particolarmente spassosa raggiunta da chi sostiene che dietro Caterina ci sono in realtà i Simonsen Laboratories, un centro di ricerca californiano che si occupa di fornitura di cavie per la sperimentazione animale. Cioè, questi dei Simonsen Labs avrebbero studiato un piano favoloso per dare visibilità e credito alla pratica della sperimentazione animale utilizzando a questo scopo una ragazza che porta il loro stesso cognome. Insospettabili. Dei geni del male!
(Personalmente, trovo sempre inquietante la diffusissima pratica di domandare “chi ti paga“: non capisco come sia possibile non accettare un’opinione contraria alla propria al punto da ritenere che l’unica spiegazione possibile sia che chi la esprime sia pagato per farlo. Ad ogni modo in relazione a Caterina consiglio la lettura di questo articolo, che racconta un po’ meglio che tipo di persona è Caterina e da dove è nato il caso.)
Tra minacce di morte e idee complottare dell’ultima ora, comunque, in molti hanno anche manifestato il proprio sostegno a Caterina, guadagnandosi a loro volta insulti e minacce. Allo stesso modo, non sono mancati i casi di malati gravi che, al contrario di Caterina, si sono schierati apertamente contro la sperimentazione e la ricerca, ricevendo a loro volta in alcuni casi un trattamento non esattamente edificante.

Perché il caso Simonsen fa notizia
E insomma, la storia a grandi linee è questa e ci si rende conto piuttosto in fretta che soddisfa numerosi criteri di notiziabilità. Tanto per cominciare, è per l’appunto una storia, già fatta e finita, dall’impianto drammatico ben definito: ha il “buono” da una parte, Caterina, con la sua sfida titanica contro la malattia e una vicenda personale già di suo molto forte, e i “cattivi” dall’altra, i “nazi-animalisti”.
Inoltre, è una notizia che si colloca sulla scia del dibattito sulla sperimentazione animale e su Telethon, che già stava avendo di suo una certa copertura, ma mancava di quel quid che lo rendesse un argomento più che tecnico e scientifico, connotandolo umanamente. È un singolo episodio che riesce a sintetizzare un processo di più ampio respiro (il dibattito sulla Sperimentazione animale) e renderlo così meglio notiziabile. Nel suo essere singolare, però, è anche una vicenda che nel momento in cui è emersa agli onori della cronaca si presentava come ancora in divenire, e garantiva quindi una continuità narrativa nel tempo.
Da non sottovalutare poi la disponibilità di materiale specifico (video e foto) già prodotto, facilmente utilizzabile sia dai tg che dai giornali. I due video-messaggi di Caterina e le varie foto di lei e dei suoi sostenitori non presentano un livello tecnico o artistico professionale, come è ovvio che sia, ma risultano comunque potenti e di sicura efficacia (oltre a essere facilmente riproducibili e declinabili anche come meme).

Ma l’aspetto di maggiore interesse di tutta la vicenda è forse il suo punto di origine, l’arena in cui si è sviluppata, vale a dire Internet. È chiaro che il web e in particolare il mondo dei social network si stanno ritagliando sempre più un loro ruolo nelle dinamiche di agenda building, un ruolo che dipende dal fatto che percepiamo Internet sempre più come un mondo reale e non più come una mera virtualità estranea alla vita concreta.
Non dobbiamo però commettere l’errore di credere che in Internet valgano le stesse dinamiche sociali che valgono nella vita di tutti i giorni. O meglio, le dinamiche sono fondamentalmente le stesse ma sono deformate e talvolta esasperate dal diverso tipo di visibilità offerto della Rete.
Proprio per questo, quanto accaduto a Caterina manca di un elemento che personalmente reputo parecchio importante nella definizione di cosa è una notizia: quello dell’eccezionalità. Quando sei su Internet, anche solo esprimere la tua opinione su un qualsiasi argomento ti può portare insulti pesanti, auguri di morte e accuse campate in aria. E non succede solo a Caterina: in certi ambienti, soprattutto quelli popolati da determinate categorie di individui, è, purtroppo, la norma.
Sarebbe facile e veramente stupido dare a Internet la colpa di tutto ciò. Il problema, come al solito, non è il mezzo, ma chi lo utilizza male e con scarsa consapevolezza sia delle sue reali potenzialità, sia dei suoi limiti e dei suoi rischi. In poche parole: il problema, nella vita come sulla rete, sono gli stronzi.
Come ho gia scritto su Facebook varie volte (e noto con piacere che lo hai letto) chi mette la propria faccia (soprattutto) sul web in un argomento tanto delicato come questo (secondo me in primis per avere notorietà, poi sarò stronzo come ci definisci tu eh), deve essere pronto a prendersi insulti e minacce a palate (non che lo ritenga giusto) ma soprattutto prese per il culo. Poi, chi mi dice che questa ragazza abbia realmente 4 malattie rare? Ormai sul web si vede praticamente di tutto, se è stata tanto “coraggiosa” di metterci la faccia, poteva fare un piccolo sforzo in più e pubblicare anche documenti che confermassero le sue patologie (della serie “se non vedo non credo”). Oltretutto trovo al quanto ridicolo non tanto il fatto che si possa ipotizzare una notevole “coincidenza” fra il cognome della ragazza e i Simonsen Lab. ma piuttosto che quanto accaduto susciti tanta perplessità quando E’ SEMPRE AVVENUTO ma nessuno ne ha mai parlato così dettagliatamente da aprirci quasi un dossier. Un esempio personale: nell’80% dei casi se dico di essere vegano partono le prese per il culo e gli insulti, e allora? Non che sia piacevole, ma se sono pronto a renderlo noto devo anche essere a conoscenza della possiiblità che possa accadere qualcosa di “poco piacevole”. Quando si parla di sperimentazione animale (chiamiamola col suo vero nome; vivisezione) non stiamo parlando di giocattolini privi di vita e sentimenti, bensì stiamo parlando di ESSERI VIVENTI (dal “topo” al “cane” e via dicendo).
“Ricerca” che tra l’altro non ha MAI (lo sottolineerei se si potesse) dato luce a vere e proprie CURE alle malattie più gravi (aids, sm, sla, cancro, ecc) e da quanti anni Telethon riceve soldi? Da quanti “fa a pezzi” animali per trovare delle cure (?). Come è ben noto c’è un grandissimo mercato dietro le case farmaceutiche, se si trovassero CURE DEFINITIVE a rigor di logica il mercato dietro ai farmaci calerebbe non poco (non mi cadere dal pero!). In poche parole ci vogliono curare ma non guarire (ecco perchè la sperimentazione animale è pressochè inutile, senza contare il fatto che non è possibile sperimentare farmaci per PERSONE su ANIMALI, penso ci arriverebbe anche un bambino eh). Oltretutto, anche se fosse davvero utile, non trovo giusto che un determinato ED INNOCENTE essere vivente debba essere messo al servizio di un altro (magari molto più “colpevole”) e mi dispiace che una persona come te non abbia ancora capito questa cosa. Per concludere ciò che è stato è stato, non rendiamo inutile quel poco di “buono” che fino ad ora la sperimentazione animale è riuscita a produrre, MA BASTA! Andiamo avanti, evolviamoci, i metodi alternativi CI SONO ma non vengono presi in considerazione (non è che non hanno riscontri scentifici come dici tu, è che ogni volta che si trovano partono i tentativi di boicotaggio – vedi proprio il caso simonsen -).
Appena lo ritrovo pubblico il link di un esperto che rispondeva a Caterina, almeno magari potrai parlare anche di quello senza soffermarti solo sui soliti luoghi comuni che “fanno comodo”.
Un’ultima domanda rivolta a te: secondo quale logica il tuo cane, il tuo gatto hanno diritto di una vita serena mentre gli animali “da laboratorio” (tra cui anche cani e gatti, eh) no?
;)
http://www.all4animals.it/2014/01/03/caso-caterina-simonsen-la-lodevole-risposta-del-biologo-roberto-cazzolla-gatti/
Avevo già letto l’intervento di Cazzolla. La questione della sperimentazione animale è spinosa, e infatti ho cercato di non trattarla in questo articolo, concentrandomi sulla vicenda di Caterina e sui motivi per cui, secondo me, è riuscita a salire agli onori della cronaca. Che in realtà sia una vicenda tutto fuorché eccezionale siamo d’accordo.
Una precisazione: non ho definito “stronzi” gli animalisti come categoria (come sembri intendere quando scrivi “stronzi come ci definisci tu”). Mi riferivo in generale a coloro che insultano e augurano la morte a chi ha l’unica colpa di non pensarla come loro. E questo succede, molto tristemente, sia tra le fila degli animalisti che tra le fila dei pro-sperimentazione.
Allora ti chiedo scusa, avevo inteso male. L’impostazione del tuo articolo non mi sembrava nettamente neutrale :)
Non hai torto. Diciamo che in questo caso specifico, se mi devo schierare con Caterina o con chi l’ha insultata e le ha augurato di morire, io sto decisamente con Caterina e questo sicuramente dall’articolo traspare.
Ma esattamente come, a parti invertite, tra i malati che invece stanno pubblicando video contro la sperimentazione animale e chi sta consigliando loro di interrompere le cure e dice che meritano di morire, sto decisamente con i primi.
Non sono d’accordo con questi atti (ammesso che non siano geniali trovate pubblicitarie)ma capisco la frustrazione da cui traggono origine.Io sono diventata antivivisezionista non solo x tutelare
i miei parenti gravemente malati che non hanno tempo di permettere a
ricercatori vecchio stampo di pasticciare ancora e ancora sugli animali
sprecando tempo e soldi, ma anche leggendo le fonti scientifiche e
universitarie.Consiglio a chi vuole approfondire in maniera ONESTA di dgt su google “modelli animali sperimentali” per vedere con quanta fantasia si cerca di replicare maldestramente negli animali le patologie proprie solo dell’essere umano(anzi, di una particolare parte di esseri umani, per cui neanche io sarei un validomodello sperimentale).
Es. tratto dalla lezione di “Principi di Oncologia
Sperimentale”pagina 10: “l’estrapolazione dell’animale all’uomo VA SEMPRE
EFFETTUATA CON RISERVA,E I RISULTATI DEGLI ESPERIMENTI DOVRANNO ESSERE VERIFICATI CON STUDI SULL’UOMO”.
Oppure ancora DAL FOGLIETTO ILLUSTRATIVO DI GRISOVINA FP (GRISEOFULVINA):“.LE SOMMINISTRAZIONI DI DOSI ELEVATE DI GRISEOFULVINA PER LUNGO TEMPO HA DATO LUOGO ALLO SVILUPPO DI EPATOMI NEL TOPO E DI TUMORI TIROIDEI NEL RATTO, MA NON NEL CRICETO. IL SIGNIFICATO CLINICO DI TUTTO CIO’ NON È NOTO.
Che dire di più a prova che la SA a tutto serve fuorchè alla vera ricerca della conoscenza delle nostre malattie e alle relative cure?
La Sperimentazione Animale
1.1 Cos’è la Sperimentazione Animale?
“Sperimentazione Animale” è un termine ombrello che racchiude tutte quelle tecniche di ricerca che fanno uso di animali vivi.
1.2 “Sperimentazione Animale” è sinonimo di “Vivisezione”?
Il significato di una parola viene attribuito sulla base dell’etimologia e dell’utilizzo.
Dal punto di vista etimologico, vivisezione è un termine che indica soltanto quelle tecniche di laboratorio che richiedono il taglio del tessuto animale in vivo (sotto anestesia totale o locale); dunque non racchiude tutti quei metodi sperimentali che non comportano il taglio del tessuto.
Dal punto di vista dell’utilizzo, in ambito scientifico il termine non è presente, in quanto non dà indicazioni di valore sul tipo di esperimento che è stato condotto. In certi ambienti, soprattutto animalisti, è invece usato come sinonimo della sperimentazione animale in toto. Si tratta di una tattica per ottenere una reazione emotiva nel lettore/ascoltatore, perché evocare il “taglio”, la “ferita”, il “sangue” porta sempre alla mente immagini negative. Ovviamente noi contrastiamo fortemente tale utilizzo, in quanto scorretto per etimologia e in quanto evoca un’immagine distorta della sperimentazione animale, e ci atteniamo dunque al senso stretto del termine che, benché poco utile, è senz’altro più preciso
1.3 A cosa serve la sperimentazione animale?
A fare ricerca, ovviamente. La ricerca poi può essere diretta in vario modo: semplice curiosità intellettuale senza applicazioni, almeno immediate (ad es., voglio capire come si orienta una formica); test farmacologici e di tossicità; modelli animali in senso generale.
I Modelli Animali
2.1 Cos’è un modello animale?
Un organismo che per sue specifiche caratteristiche biologiche si presta bene ad essere utilizzato come oggetto di studio per trarre conclusioni di applicabilità generale oppure specificamente umana.
2.2 Può considerarsi una “copia” dell’uomo?
No. Il modello è un sistema semplificato che si utilizza per riprodurre alcune caratteristiche dell’originale. Non è una copia e nessuno pretende che lo sia. Inoltre quello che scopriamo in un modello spesso è applicabile non solo all’uomo, ma ad un’intera gamma di organismi.
2.3 Come viene scelto un organismo modello, e quali sono i più utilizzati?
Dipende dal tipo di esperimenti che si vuol fare. Ogni modello ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi. Di solito si cerca di scegliere gli organismi modello sulla base di criteri di praticità sperimentale; è necessario ad esempio che si allevino con facilità in un laboratorio e si riproducano in fretta. Il resto dipende dalla caratteristica che si desidera osservare: il moscerino Drosophila melanogaster, ad esempio, è un favorito per gli studi di genetica, grazie alla facilità con cui osservano gli effetti delle mutazioni e con cui si ottiene la transgenesi (Boyl et al., 2001; Joshi, 2003; Prasad and Joshi, 2003; Saitoe et al., 2005; Piazza and Wessells, 2011); il rospo Xenopus laevis è il beniamino dei biologi dello sviluppo, poiché le uova grandi e senza guscio permettono facilmente di osservare i processi di sviluppo embrionale e di intervenire su di essi (Vignali et al., 1994; Amaya, 2005); topi e ratti sono molto utilizzati per via della grande vicinanza filogenetica con l’uomo ei tempi di sviluppo comparativamente rapidi, i primi vengono talvolta preferiti per la facilità con cui si ottiene la transgenesi, i secondi per via delle maggiori capacità cognitive (Hamilton and Frankel, 2001; Tecott, 2003; Brown and Hancock, 2006). Organismi più simili all’uomo, come cani, gatti e primati, sono utilizzati di rado, e i loro campi di applicazione sono principalmente nella tossicologia, neurobiologia e chirurgia sperimentale.
Ovviamente chi sostenga che mole e rapidità di allevamento non siano fattori importanti per la scelta di un modello non ha idea di cosa voglia dire fare ricerca. La filosofia magari la fai solo pensando, la letteratura leggendo e scrivendo, la scienza facendo esperimenti pratici, con le mani; ergo le motivazione pratiche sono di primaria importanza: devi poter iniziare l’esperimento, condurlo e portarlo a termine possibilmente nella durata della tua vita e con un numero sufficiente di dati da avere rilevanza statistica. Dunque serve un animale che si allevi facilmente e rapidamente in grande quantità, altrimenti certe ricerche non le puoi fare. Molto semplicemente. Preferiscono chiamarlo “un motivo pratico” invece che un motivo “scientifico”? Io non la vedo la differenza, la scienza è una disciplina che sta a contatto con la pratica.
2.4 Le informazioni ottenute tramite gli organismi modello possono essere estese ad altri organismi o all’uomo?
Con la dovuta prudenza, le informazioni sui meccanismi di base di funzionamento dell’organismo animale possono essere considerate valide dalla Drosophila al topo al macaco all’uomo (Sharman and Brand, 1998; Acampora et al., 2005). Perfino molte informazioni ottenute da studi su non-animali, come batteri o lieviti, mutatis mutandis risultano essere di valore del tutto generale (Afshar and Murnane, 1999; Yang et al., 2000; Meulemans et al., 2010). D’altro canto, il principio filosofico e pratico alla base della rivcerca scientifica è la ricerca delle regolarità ripetute nell’andamento della natura: si sfugge al caos delle singolarità individuando principi generali. Chi nega che i modelli animali possano essere oggetto di generalizzazioni di fatto si pone filosoficamente contro tutta la ricerca scientifica in biologia… Il che è filosoficamente legittimo, ma ti priva dell’onore di fregiarti di titoli “scientifici”.
Se la scoperta scientifica ha valore generale, lo stesso non si può dire per le sue specifiche applicazioni, come l’utilizzo sull’uomo di determinati farmaci, o i test di tossicità. In questi casi il modello animale è utilizzato come garanzia minima, in mancanza di metodi più affidabili in grado di sostituirlo. Questo ruolo non è tuttavia da sottovalutare, come non è da sottovalutare il ruolo che ha la pura scoperta scientifica a priori dell’applicazione tecnica.
Approfondimento sulla ricerca di base
2.5 E’ vero che il modello animale non è soggetto a validazione?
In realtà non dovremmo mai parlare di modello animale, ma di modelli animali, al plurale. Essi sono potenzialmente infiniti.
I modelli utilizzati nella ricerca di base non direzionata, come Drosophila e Xenopus, non necessitano di alcuna validazione, poiché il loro duplice ruolo è di raccogliere informazioni, che inutili non sono mai, e di suggerire direzioni possibili per le ricerche future, non di tradurre i risultati direttamente in una tecnica terapeutica per l’uomo.
I modelli che riproducono patologie umane devono invece rispondere a tre requisiti per essere ritenuti validi: face validity, o validità di forma; predictive validity, o validità predittiva; construct validity, validità di costrutto (Willner and Mitchell, 2002; Anisman and Matheson, 2005; Vollmayr et al., 2007). Vale a dire, in un buon modello animale di patologia si manifestano gli stessi sintomi del corrispettivo umano, le stesse reazioni ai trattamenti, la stessa eziologia dei sintomi. Ogni modello viene dunque validato dalla comunità scientifica sulla base della corrispondenza più o meno piena a questi requisiti.
Sono forse i test farmacologici a richiedere per legge precisi protocolli di validazione, visto che è loro richiesto, come tecnica, di essere in grado di fare previsioni il più possibile accurate e ripetibili; ma nessun modello cellulare o computazionale o similari di fenomeno biologico che appaia in letteratura subisce di per sé processi di validazione più complessi di quelli riservati ai modelli animali.
Perché gli animalisti non ritengano questa una validazione sufficiente non è chiaro e mai lo sarà. La differenza fra la validazione di un modello animale e la validazione di un modello ECVAM è che la seconda viene fatta con un unico studio effettuato da un solo istituto, mentre la prima viene effettuata continuamente per anni da tutti i ricercatori coinvolti in quel campo, non in un solo studio ma in decine e con un continuo confronto reciproco. Personalmente direi che i modelli animali sono perfino più validati di quelli non animali, e il feticismo degli animalisti per il metodo di validazione ECVAM (che peraltro non ha grandi successi all’attivo) è spiegabile solo con ignoranza e malafede.
2.6 Solo l’ECVAM fa uso di metodi di ricerca alternativi?
Delirio puro. Tutte le università e tutti i laboratori di ricerca del mondo hanno una sezione dedicata alla ricerca in vitro. Ripetiamolo una volta di più: una cosa sono i test farmacologici su animali, un’altra sono i modelli di ricerca, animali e non. Il valore euristico delle due cose è completamente diverso. Solo i metodi validati dall’ECVAM sono riconosciuti dalla legge come utilizzabili in sostituzione di un rispettivo modello animale per fare una specifica previsione nei trial farmacologici, ma nei laboratori vengono utilizzati come generatori e verificatori di ipoptesi un’infinità di modelli sperimentali in vitro, altro che i 38 validati dall’ECVAM.
Generalmente gli oppositori della sperimentazione animale criticano (abbastanza inefficacemente) soltanto l’uso di animali nei test farmacologici, e poi per sineddoche pretendono di aver demolito la Sperimentazione Animale in toto. Non è così, anzi la parte più grossa della Sperimentazione Animale sta al di fuori dell’uso di animali come predittori esatti di una risposta a un farmaco.
Generalmente in questi casi non gli resta che cercare di negare la validità e l’utilità della ricerca scientifica in toto, come fa Mamone Capria qui. Insomma non si fanno alcun problema a gettare il bambino (l’intera scienza biomedica, inclusa la stessa ricerca in vitro o sugli umani che dicono di apprezzare tanto) con l’acqua sporca (che per loro è la Sperimentazione Animale).
2.7 La transgenesi serve a rendere più “umanizzati” gli animali?
Assolutamente no. La transgenesi non rende affatto gli animali più umani (ma può farlo). La transgenesi semmai sfrutta le somiglianze che sono già presenti fra tutti gli organismi per studiare l’effetto che ha un gene nel contesto dell’organismo. Un profano potrebbe esserne sorpreso, ma i geni sono spessissimo perfettamente intercambiabili fra specie, per cui a conti fatti usare una proteina umana o quella che ha la stessa funzione nel topo di solito è la stessa cosa.
L’uomo è il topo hanno quasi il 100% del genoma in comune (Pennacchio, 2003; Tecott, 2003; Brown and Hancock, 2006), una somiglianza che si riflette anche sul piano funzionale (Rossant and McKerlie, 2001; Argmann et al., 2005; Kim et al., 2010; Kitsios et al., 2010; Miller et al., 2010), nessuno pretende di renderli ancora più simili di quanto già non siano …
2.8 Il fatto che tutti i farmaci debbano essere testati sull’uomo prima della commercializzazione non dimostra che i test su animali non servono a niente?
Come dire, “a che serve mettere il numero sulle scarpe, tanto te le devi provare comunque prima di comprarle”. Ma se permettete testare 25000 paia di scarpe è un po’ diverso da testarne due o tre. Specialmente se c’è il rischio che il paio di scarpe sbagliato ti ammazzi…
Il test su animali non garantisce gli effetti che un farmaco avrà sull’uomo, ma questo non vuol dire che sia inutile. Ci dà comunque forti indizi sulla sua funzione, ci permette una preselezione atta ad escludere i composti nocivi o inutili e a mettere in evidenza le potenzialità degli altri, e soprattutto ci permette di muoverci con libertà. In questo senso il modello animale rappresenta uno spazio di movimento in cui lo scienziato può generare e mettere alla prova nuove ipotesi senza tutte le restrizioni che avrebbe con un essere umano. Una funzione indispensabile.
2.9 Perché si studiano le malattie croniche e degenerative nei roditori che vivono solo 2-3 anni?
Perché ovviamente anche i processi degenerativi sono accelerati in animali dal life-span breve, e infatti prima dell’avvento della transgenesi i modelli animali favoriti per le demenze erano semplicemente animali anziani, anche roditori (Hollander and Mos, 1986; Dewachter et al., 2000b; Dewachter et al., 2000a). Non per nulla uno dei modelli più recenti per l’invecchiamento è il genere di pesci d’acqua dolce Notobranchius. Qualsiasi biologo è in grado quanto meno di immaginare queste dinamiche, anche se forse non ogni psichiatra …
2.10 Perché si studiano le malattie della mente negli animali che non sanno parlare?
I modelli animali di malattia psichiatrica non riproducono mai l’intero quadro sintomatologico dell’originale, e non è quella la loro funzione. Essa è semmai quella di concentrarsi su singole sintomatologie, che possono essere benissimo studiate senza che il roditore venga a raccontarci la sua biografia (che per altro ci è ben nota sin dall’inizio). I parametri comportamentali che si possono usare per misurare i sintomi psichiatrici nell’animale sono innumerevoli, e dunque per i dettagli di questo aspetto si rimanda alla letteratura specializzata o eventualmente a nostri prossimi interventi.
Quanto alle critiche di chi afferma che i modelli in questione siano creati tramite sostanza psicoattive o lesioni cerebrali, e ciò li invaliderebbe, vogliamo far notare: 1) Che ci sono modelli che non sfruttano nessuna delle due metodologie, come quelli basati su stress e deprivazione ambientale (Millstein and Holmes, 2007; George et al., 2010; Monje et al., 2011; Farooq et al., 2012; Kim et al., 2012) e 2) che nel nostro cervello c’è già un discreto ammontare di sostanze psicoattive, ed è sul riequilibrio del loro funzionamento che si basano la maggior parte degli psicofarmaci, quindi quello che si fa somministrandole dall’esterno è semplicemente riprodurre artificialmente le condizioni per il determinato sintomo che ci interessa studiare.
D’altro canto, si può facilmente procedere ad una dimostrazione ab absurdo di come la posizione del ritenere la mente animale una “scatola nera” dal contenuto inconoscibile non possa esssere sostenuta: essa solleverebbe l’obiezione “allora come fanno gli animalisti a sostenere che essi soffrono?”
Ciò detto, chiaramente esistono sintomi e fenomeni esclusivamente umani o studiabili a dovere soltanto sull’umano, e quello più significativo di essi è appunto il linguaggio. Esso, infatti, viene studiato sugli unici animali che hanno linguaggio, gli umani.
2.11 Ma in questo modo non si riproduce la patologia. Come può un modello che non riproduce l’intera patologia psichiatrica essere utile a trattarla?
Il trattamento farmacologico della patologia psichiatrica è sempre sintomatico. Non esiste il farmaco magico che fa sparire la depressione, o che fa sparire il disturbo bipolare, o che rende amabili i narcisisti o assertivi gli evitanti o disinvolti gli ansiosi. I farmaci psichiatrici agiscono su un singolo sintomo o su un determinato insieme di sintomi. La stessa classificazione delle malattie psichiatriche è ardua e parecchio ramificata proprio per via dell’estrema variabilità delle combinazioni di sintomatologie che si presentano. Dunque può il trattamento della patologia psichiatrica essere basato sulla “scomposizione” della stessa nei suoi vari sintomi? Sì, anzi è del tutto normale che accada in questo modo. Lo psichiatra spesso prescrive un cocktail di farmaci su misura per le sintomatologie che si presentano: ad esempio stabilizzanti dell’umore spesso vengono usati in combinazione con gli antidepressivi, il litio è prediletto per il suo effetti antisuicidario e antianedonico, gli SSRI sono efficaci contro l’impotenza appresa e l’apatia e via dicendo… quindi questi farmaci vengono ordinariamente combinati per creare un trattamento il più possibile su misura.
L’approccio della psichiatria alla patologia mentale è esclusivamente sintomatico. Poi si può fare tanta filosofia sugli aspetti psicologici profondi e via dicendo, ma questo non attiene alla psichiatria. La psichiatria interviene verificando la presenza di un sintomo e intervenendo con il trattamento farmacologico più adeguato.
2.12 E’ vero che i test preclinici di farmaci su animali falliscono nel 92% dei casi?
Si tratta di una delle più spudorate bugie che capita di leggere sui testi di propaganda animalista. Il dato originale è che dei farmaci che hanno successo su animali, circa uno su dieci supera anche tutte le fasi cliniche fino alla commercializzazione. Questo non si può assolutamente tradurre con un fallimento predittivo in nove casi su dieci, per due ragioni:
1) Perché i farmaci scartati in fase clinica non necessariamente sno scartati perché nocivi o inefficaci, ma anche solo perché magari meno efficaci di altri farmaci già in commercio.
2) Perché il pool di sostanze di partenza da testare prodotte dalla ricerca di base ammonta a decine di migliaia. Lo scopo fondamentale dei test su animali è scremare tutte quelle che si rivelano palesemente inefficaci o pericolose. Probabilmente nel processo ne scarteremo anche alcune che forse avrebbero potuto funzionare, è un processo volutamente molto conservativo che mira più a scartare il cattivo che a salvare il buono. Le sostanze scartate in fase preclinica su animali non sapremo mai, di solito, se erano davvero per la maggioranza cattive o no. Ma gli animalisti se vogliono possono provarle su se stessi e verificare, eh, nessuna obiezione!
Tuttavia abbiamo provato qui a farne una stima a spanne… giudicate voi se volete approfondire.
I “Metodi Alternativi”
3.1 Esistono metodi di ricerca in biologia che non facciano uso di animali vivi?
Moltissimi. Colture cellulari, simulazioni al computer, studi clinici ed altri. Va detto che di norma tali metodi non usano animali vivi, ma spesso li usano morti, perché i materiali utilizzati da qualche parte devono pur venire.
3.2 Perché non vengono utilizzati?
Questi metodi vengono utilizzati ordinariamente in ricerca. Arriverei a dire che praticamente tutti i laboratori del mondo fanno uso anche di questi metodi (chi afferma che si danno Nobel per la ricerca su animali esclusivamente perché “si fa solo quella” sta semplicemente vaneggiando). Ma ciascuno di essi ha dei limiti naturali. Colture cellulari e simulazioni al computer possono soltanto dare delle informazioni preliminari che devono essere confermate dallo studio in vivo. Se si obbietta che il cuore di un topo non può simulare quello di un umano, si dovrà a maggior riconoscere che non può farlo uno strato di cellule su un vetrino.
Gli studi clinici invece, se ben condotti, hanno grande validità e garantiscono la visibilità scientifica, ma presentano tutta una serie di difficoltà: è necessario trovare un numero di soggetti da studiare sufficientemente ampio, poter offrire delle garanzie sulla loro salute, disporre di ingenti finanziamenti, poter controllare strettamente le condizioni di vita degli individui per un tempo sufficientemente lungo, isolando singoli fattori biologici … e, ovviamente, non si può procedere per “prove ed errori” in libertà, che è una delle necessità della ricerca scientifica.
3.3 E’ vero che i metodi di cui stiamo parlando non vengono usati perché troppo costosi?
Cominciamo col dire che il denaro rappresenta le risorse sociali che abbiamo a disposizione e che possiamo investire in una ricerca. E gli ambiti di studio sono tanti, e le risorse non sono illimitate. Dunque se anche chi afferma ciò avesse ragione, diremmo che il denaro è un motivo più che buono per preferire un metodo rispetto a un altro.
Ciò detto, in realtà la sperimentazione animale è la metodologia di ricerca più costosa e difficile, se escludiamo gli studi clinici. Il fatto che questi ultimi costino tanto è uno dei numerosissimi fattori limitanti, che ho già citato, per il loro uso. Dunque una sostanza viene provata sull’uomo solo se c’è una gran mole di dati che ne indichi le potenzialità e la non pericolosità, il che è un atteggiamento perfettamente razionale.
3.4 È possibile, allo stato attuale, sostituire la sperimentazione animale con questi metodi cosiddetti “alternativi”?
Al momento in nessun ambito della ricerca che coinvolge la biologia animale si può fare a meno degli animali. Dovrebbe essere scontato da dirsi, studiare l’animale senza l’animale … sarebbe come fare informatica senza il computer. Puoi anche farlo, scrivere gli algoritmi su un foglio di carta etc., ma non ha senso se non hai un supporto su cui provarli.
Tuttavia in alcuni casi possono essere usati metodi in grado di ridurre il numero di cavie impiegate e migliorare le loro condizioni di vita, con conseguente riduzione anche nei costi. Vale, in generale, la regola secondo la quale in laboratorio ogni tecnica ha pro e contro, e dunque nessuna può essere completamente sostituita da un’altra. Anche lo stesso modello animale non è certo privo di difetti, e siamo i primi ad esser consapevoli che numerose osservazioni si fanno meglio utilizzando altri metodi.
3.5 E in futuro?
Nell’immediato futuro è possibile che vengano sviluppati metodi alternativi efficaci per quanto riguarda i test di tossicologia, ad esempio, o altre operazioni che siano in qualche modo “di routine”. Sarebbe anche uno sviluppo auspicabile, ma al momento i metodi allo studio non sono sufficientemente raffinati.
Praticamente in tutti gli altri campi il ricorso all’animale vivo, presto o tardi, diventerà sempre inevitabile, a meno di sapere già a perfezione tutto quello che ci interessa sapere sulla biologia animale. Ma se lo sapremo già, a che servirà studiarla ancora?
3.6 La sperimentazione animale ha mai fatto danni? I siti contrari riportano numerosi esempi.
Non poteva far danno.
Come dicevo, tutti i prodotti in commercio hanno superato anche i trial clinici su umani. Se dunque in seguito si sono dimostrati comunque dannosi, questo non è un limite della sperimentazione animale, ma della sperimentazione in toto. Non puoi vedere un effetto collaterali che si verifica in un 1/10000 casi su un campione di cento individui. Se si tiene conto di questo, automaticamente il 90% dei “danni” riportati dai siti animalisti scende giù per lo scarico. Notevole è che negli stessi elenchi spesso si accusa la sperimentazione animale di aver rallentato lo sviluppo di alcune tecniche … ammesso che ciò sia vero, e non è un’ammissione, si tratta al più di un eccesso di prudenza. Non vogliamo arrischiarci a provare sugli umani un farmaco che ha ucciso tutti gli animali su cui l’abbiamo provato, no? Chi si prenderebbe una simile responsabilità? Specialmente se poi, come se non bastasse, ci toccherà pure sentire gli animalisti che ci accusano di averlo somministrato al pubblico senza sufficienti precauzioni.
In generale si sperimenta appunto perché non si sa il risultato. Tutte le volte che ci andrà male, qualunque cosa facciamo, ci criticheranno. Ma la sperimentazione animale ha fatto parte della scoperta e standardizzazione di tutte le tecniche mediche oggi in uso, e non si può pretendere di affermare che in tutte quelle che funzionano non ne abbia merito e in tutte quelle che non hanno funzionato ne sia colpevole, questa è disonestà intellettuale.
3.7 Ma quando un farmaco viene ritirato, la colpa è anche della sperimentazione animale che aveva già superato!
Ebbene sì. Alcuni hanno insistito su questo punto. Evidentemente i test di orientamento basati su logica e comprensione del testo all’ingresso delle facoltà di scienze sono tempo sprecato (ammesso che chi dice queste cose abbia davvero mai aperto un libro di biologia). Se un farmaco ha superato la prova su umani, allora vuol dire che tutto quello che si poteva fare per sperimentarlo è stato fatto. Cosa rimproverano costoro ai test preclinici su animali, di non essere riusciti a prevedere quello che non si è previsto neanche nei test su umani? Un test su animali per essere valido deve essere migliore di quelli fatti direttamente sugli umani? Ok, avete ragione, su questo siamo sconfitti: i test su animali non sono addirittura MIGLIORI di quelli sugli umani, sono una fase preliminare. I test si combinano utilizzando sempre prima quello meno raffinato e meno costoso, in modo da risparmiare rischi, fatica e denaro quando si useranno i test più raffinati. Un trial clinico è SEMPRE, immancabilmente, più raffinato di un test su animali. Che sorpresona, eh?! Quello che non si scopre nel trial clinico è evidentemente per via del campione statisticamente ridotto. Hai voglia a dare dosi più alte di farmaco agli animali, non aumenti la potenza statistica in questo modo, è impossibile (e infatti gli alti dosaggi somministrati agli animali in fase preclinica non servono a quello).
Ciò che manca, a volte, è il senso del ridicolo…
Approfondimento sulla statistica
3.8 Esistono tecniche non invasive per lo studio dei processi cerebrali?
Sì. C’è un fortissimo interesse, anche scientifico, a sviluppare tali tecniche, poiché esse, non richiedendo di ricorrere alla chirurgia, permettono di studiare direttamente l’essere umano. Basti pensare alla più semplice di tutte queste tecniche, l’elettroencefalogramma …
Come ho sempre occasione di ricordare, però, non esiste quasi nessuna tecnica sperimentale che abbia solo vantaggi e nessuno svantaggio, e le tecniche in questione non sfuggono alla regola. Su un’analisi approfondita dei singoli metodi di studio dell’attività cerebrale con tutti i loro pregi, difetti e possibilità di applicazione si potrebbero scrivere libri interi, ed è stato fatto (Crist and Lebedev, 2008; Dzirasa, 2008; Hanson et al., 2008; Lehew and Nicolelis, 2008; Lin and Gervasoni, 2008; Oliveira-Maia et al., 2008; Oliveira and Dimitrov, 2008; Sandler, 2008; Turner et al., 2008; Wiest et al., 2008).
Approfondimenti saranno forniti eventualmente in altra sede. Per ora dobbiamo notare che metodi come fMRI, risonanza magnetica funzionale, o PET, Positron Emission Tomography, o ancora il semplice EEG, l’elettroencefalogramma, hanno tutti dei notevolissimi problemi che ne restringono l’applicabilità rendendoli inutilizzabili per studiare qualsiasi forma di integrazione a più livelli, ovvero per connettere l’attività del singolo neurone al quadro generale dei fenomeni di sincronizzazione su scala più ampia, all’attività dei sistemi di neurotrasmettitori e infine all’attività cognitiva. I limiti più significativi di queste tecniche non invasive riguardano i costi talora elevatissimi (ripetiamolo ancora una volta: un costo accessibile solo ad un paio di laboratori in tutta Italia rappresenta un limite giustificatissimo per l’applicazione di una metodologia), problemi a riuscire a coniugare una buona risoluzione temporale e spaziale, limitazioni nella durata dell’esperimento, difficoltà nell’isolare il segnale originale rispetto alle perturbazioni, impossibilità di studiare il comportamento del singolo neurone nel contesto del sistema nervoso; poiché una delle sfide più grandi delle neuroscienze è integrare il funzionamento del cervello al singolo neurone, questo è un limite grave. A ciò si aggiunga una riproducibilità bassissima, secondo alcuni dell’8%, che rende gli studi di imaging raramente affidabili. In bibliografia c’è del materiale per chi voglia approfondire un po’ per conto suo i limiti e le possibilità offerti da queste tecniche. Comunque speriamo di poter dedicare un intero articolo alla questione (Zarahn, 2001; Zhao et al., 2005; Smirnakis et al., 2007 Shen et al., 2008; Chappell et al., 2011 Jones, 1996; Volkow et al., 1997; Turner and Jones, 2003).
L’unica obiezione che abbia mai letto a questi fatti, chiaramente in malafede, è il fatto che sia possibile fare ricerche al livello di singolo neurone anche sugli umani, principalmente epilettici gravi che hanno bisogno di operazioni al cervello. Giustissimo, ma qui si parlava di tecniche non invasive ed applicabili su larga scala, perché, per fortuna, gli epilettici gravi che necessitano della chirurgia non crescono sugli alberi. Inoltre, il fatto che si faccia sugli umani indica una cosa molto chiara: non è doloroso (anche se invasivo). Quindi perché si dovrebbe porre obiezioni a fare sugli animali ciò che si può fare anche sugli umani? Fra l’altro disporre di campioni molto ampi su cui potersi muovere liberamente è importantissimo a fini euristici.
Per non parlare poi di chi fa riferimento alle simulazioni computerizzate del cervello intero. Una simulazione cresce di complessità quanto più nel dettaglio vuole simulare, e una simulazione perfetta del cervello è a sua volta un cervello. Forse è un po’ troppo chiedere di comprendere i problemi etici di sperimentare su un cervello artificiale a gente che sostiene ancora è sempre l’argomento farlocco dei “farmaci ritirati dopo la commercializzazione”. Parliamo di gente che non è in grado di completare un sillogismo aristotelico
Ovviamente, chi ama elogiare le meraviglie dei metodi alternativi è molto rapido ed efficiente nel dire cosa con essi si può fare. Curiosamente però tende ad omettere di ricordarci quello che non si può fare…
3.9 Singolarmente, i singoli metodi complementari non possono sostituire il modello animale. Ma con un approccio integrato non sarebbe possibile?
Saremmo molto interessati a scoprire come i sostenitori di simili tesi sostituirebbero per esempio con metodi in vitro gli esperimenti di deprivazione monoculare di Hubel e Wiesel (Wiesel and Hubel, 1965; Hubel and Wiesel, 1970), o come studierebbero fenomeni di apprendimento visivo al corticale al livello della risposta dei singoli neuroni (Bjorklund and Magnussen, 1981; Sclar et al., 1985; Smirnakis et al., 1997; Li et al., 2008), o come farebbero ancora a occuparsi qualsiasi effetto di natura cognitivo-comportamentale che coinvolga l’integrazione delle scariche al livello del singolo neurone. Ma questo rientra nel campo delle neuroscienze, ed è argomento che è già stato trattato nella domanda precedente, non pretendiamo troppo.
Per il resto, posso solo far notare che è una bizzarra posizione sostenere che sia possibile ricostruire la reazione di un intero organismo umano nella sua complessità partendo da componenti così elementari, e poi affermare che il problema dei modelli animali è che essi siano “troppo riduzionisti”, mettendo in luce in lunghi articoli infarciti di referenze più o meno a proposito l’estrema ed irriducibile complessità degli organismi animali come motivo della loro incompatibilità. E perdonatemi se qui non cito referenze, perché di questo si occupa già qualsiasi sito animalista; sono affermazioni loro, non nostre (si veda anche il nostro articolo in cui si notava come gli animalisti switchino abilmente fra argomenti riduzionistici e organicistici a seconda delle necessità retoriche, ma senza avere davvero un’idea loro sul tema).
Inoltre si continua a parlare di come “sarebbe possibile”, “è praticabile” e via con altre espressioni ipotetiche, sostituire la sperimentazione animale interamente con sperimentazione in vitro. Ma io dico, se davvero si potrebbe, allora perché chi sostiene queste teorie non si limita a metterle in pratica? Sicuramente non perché non ci siano fondi, fortunatamente i metodi in vitro sono per lo più meno costosi della SA, e sono già praticati in tutti i laboratori del mondo. Se vogliamo sapere come si comporta un neurone in coltura quando somministriamo un farmaco, possiamo farlo. Se vogliamo sapere come si comporta un astrocita in coltura, possiamo farlo, o se non possiamo farlo, probabilmente l’ha fatto qualcun altro in USA o in Svizzera e ha pubblicato i suoi risultati in modo che siano disponibili per tutti. Se poi vogliamo sapere come i due interagiscono, basta coltivarli tutti insieme. Sono cose che vengono fatte tutti i giorni, ovunque.
Poi però, magari, hai usato i neuroni di topo da soli, gli astrociti di topo da soli, gli astrociti e i neuroni di topo tutti insieme, e il farmaco che hai provato funzionava. Lo inietti al topo e, sorpresa! Il topo muore, oppure succede l’esatto contrario di quello che avevi previsto.
Queste sono difficotà del tutto ordinarie per uno studioso di scienza della vita. Per cui io domando ai nostri avversari, se sono così bravi da poterle sormontare, se hanno scoperto il segreto della vita, si limitino a dimostrarlo, non a ipotizzare che sia possibile dando la colpa a noi (tutti gli altri ricercatori, compresi quelli che già usano i metodi in vitro, e compresi anche i maggiori esperti al mondo di tali metodi) se ccosì non accade. Lo facciano, e noi gli daremo ragione.
Mito e realtà nei laboratori
4.1 Ho visto un video scioccante su internet girato in un laboratorio in cui si pratica la sperimentazione animale … Cosa ne pensi?
Ti suggerisco di fare innanzitutto alcuni controlli. Per prima cosa, bisogna verificare quando è stato girato il video e dove; ormai da una ventina d’anni le leggi sulla sperimentazione animale si son fatte molto più restrittive di un tempo, in Europa, mentre in molti paesi del mondo la legislazione è ancora parecchio indietro in questo senso. Inoltre questi video spesso vengono girati addirittura in posti che non sono laboratori di ricerca, come zoo e istituti veterinari, oppure che non sono a norma, e dunque non rappresentano minimamente la realtà.
Secondariamente, dovresti valutare se effettivamente le immagini che hai visto sono “crudeli”. Ti faccio alcuni esempi: potresti aver visto ghigliottinare un ratto. Non ti mentirò, in un laboratorio il ratto viene quasi sempre sacrificato, e la decapitazione con la ghigliottina è uno dei metodi preferiti. Ma questo, a parte fare un po’ schifo, non fa alcun male all’animale, che muore sul colpo. Più che far caso all’effettiva “sofferenza”, lo spettatore viene scioccato con il sangue …
Oppure vedi una scimmia con il cranio aperto e degli elettrodi in testa, e la prima impressione è che sia una sorta di “tortura”. La verità è che il cervello non ha nocicettori, quindi se l’elettrodo è correttamente posizionato (e deve esserlo per fare un buon esperimento) la sua stimolazione non causa nessun dolore, anzi può essere incredibilmente piacevole e addirittura venire usata come ricompensa per l’animale quando lo si vuole addestrare ad un determinato compito.
In generale la sofferenza non serve allo sperimentatore, e spesso danneggia i risultati dell’esperimento. Oggigiorno disponiamo di molti metodi per sperimentare in modo più umano di quanto non si facesse in passato, quindi un ricercatore che infligge dolore gratuito ai suoi animali difficilmente sarà un buon ricercatore …
Io consiglio di non fidarsi mai troppo di questi video, per un semplice motivo: se davvero rappresentassero in qualche modo la realtà, chi li ha girati avrebbe sporto denuncia prima di metterli su youtube.
4.2 Perché i laboratori e gli stabulari non sono aperti al pubblico?
È bene chiarire che i laboratori non sono parchi divertimento, non si entra ed esce come da una cabina telefonica. Gli animali vanno mantenuti in condizioni estremamente controllate, l’ingresso di patogeni ed allergeni deve essere minimo, e le condizioni ambientali mantenute stabili. Un ulteriore problema è che in tali laboratori sono custodite sostanze pericolose per la salute, fra cui farmaci, droghe, traccianti radioattivi, di cui non si può rischiare il furto o la dispersione. Questo è anche uno dei motivi per cui i laboratori vengono sempre di più spostati lontano dal centro delle città, per ragioni di sicurezza.
Inoltre non tralasciamo il motivo più ridicolo, ma per un ricercatore uno dei più seccanti: gli animalisti stessi. Ho fatto sopra degli esempi di come essi spesso sfruttano l’ignoranza della gente: se ti mostro una scimmia con gli elettrodi nel cervello tecnicamente io non ti sto mostrando nulla di falso, la trovi davvero in alcuni fortunati laboratori. Ma ometto di dirti che non sta soffrendo, parlo di “tortura”, non ti dico neanche a che serve l’esperimento, e così facendo riesco comunque a danneggiare la reputazione dei ricercatori, perché chi vede il video sarà emotivamente sconvolto.
Come è ben noto, gettar fango su qualcuno è molto più facile che rimuoverlo. Quindi non puoi biasimarmi, signora Gabanelli, se io, ricercatore, quelle immagini che tu potresti usare con disonestà contro di me preferisco non fartele avere proprio, così che tu non possa darle in pasto ad un’opinione pubblica che non è sufficientemente formata da capirne il senso.
Va da sé che resoconti scientifici dettagliati sono disponibili a chiunque su internet, basta legge qualche pubblicazione scientifica (servono spesso competenze adeguate per capirle, ma direi che questa è un’ottima preselezione dei lettori sufficientemente formai da trarre beneficio dalle informazioni che vengono loro date), e che gli ispettori e i pubblici ufficiali possono verificare che non ci siano irregolarità tutte le volte che lo desiderino. I turisti è bene che vadano a fare un giro nei musei, che puzzano di meno e son più belli da vedere. Non fa parte del concetto di trasparenza dell’operato trasformare i laboratori in luna park.
4.3 Hai detto che la legislazione attuale riguardo alla sperimentazione animale è piuttosto rigorosa. Che limiti impone?
L’ultima direttiva europea sostanzialmente regolamenta la sperimentazione su tutti gli animali che siano ritenuti dotati di capacità di soffrire sufficientemente sviluppata, ovvero i vertebrati e i cefalopodi. Le norme più significative riguardano il divieto di utilizzare randagi per gli esperimenti, di riutilizzare più volte lo stesso animale per procedure sperimentali stressanti, di eseguire esperimenti dolorosi senza anestesia.
4.4 Gli animalisti sostengono che sia possibile infrangere facilmente questi divieti …
La legge non prevede “scappatoie” che lo consentano. L’unico margine di manovra concesso ai ricercatori consiste nella possibilità di non rispettare il divieto qualora ciò sia richiesto dall’esperimento. Non si può opinare su questo punto: se devo fare una ricerca sul dolore, non possono usare un animale anestetizzato; se devo fare uno screening per un antidepressivo o un ansiolitico, devo avere a disposizione un animale sotto stress.
Questi criteri non sono equivoci: ci sono circostanze in cui rispettare il divieto comprometterebbe l’esperimento. In tutte le altre il divieto è valido.
Se invece il problema sono i pochi controlli, direi che di questo c’è da lamentarsi con le forze dell’ordine, non certo con gli scienziati.
Infine vorrei che fosse chiara una cosa: che il divieto ci sia o non ci sia, che sia fatto rispettare o non sia fatto rispettare, questo non permette di dedurre niente su come effettivamente i ricercatori si comportano nei loro laboratori. Se pure io non fossi controllato mai da nessuno, non ometterei mai di anestetizzare un topo prima di operarlo, perché lo troverei inutilmente crudele, e inoltre potrebbe inficiare i risultati dell’esperimento. Quando sentite dire che nei laboratori i ricercatori godono nel fare del male agli animali, potete dire tranquillamente che avete davanti un velenoso idiota.
4.5 Mi stai dicendo che nei laboratori gli animali non soffrono mai, non corrono rischi e vivono una bellissima vita?
Sarebbe una posizione piuttosto ipocrita. Intendiamoci, ci sono delle sperimentazioni che sono davvero del tutto innocue o quasi. Ma la maggior parte comporta una certa dose di rischio e stress per l’animale, altrimenti diverrebbe relativamente più facile farla direttamente sugli umani (in realtà ci sono limiti anche di natura pratica, e non etica, a sperimentare sugli umani, ma questa è un’altra storia e si dovrà raccontare un’altra volta).
Quello che noi diciamo non è che gli animali da laboratorio vivano in piccoli paradisi, quello che noi diciamo è che vivono in condizioni ragionevolmente più che buone, e che ogni precauzione è presa per evitare loro sofferenze. E questi sono i fatti incontestabili, sono la realtà delle cose; che ci si voglia credere o si preferisca invece attribuirci i più fantasiosi e perversi motivi per mentire spudoratamente non cambia i fatti.
Si possono aprire contestazioni piuttosto sul piano valoriale: per noi gli assunti di base quanto a valori sono la priorità della vita umana e del progresso scientifico rispetto al livello tutto sommato basso di stress che alcuni animali si trovano a subire. Si tratta insomma di un prezzo che noi troviamo assolutamente ragionevole, e troviamo anzi che sarebbe profondamente immorale e irrispettoso delle sofferenze dei nostri simili meno fortunati rifiutarsi di pagarlo. Altri possono ritenere che non sia così, ma questa è una posizione filosofica che non scalfisce minimamente il discorso scientifico. Inoltre, ovviamente, la riteniamo eticamente insostenibile, come argomentato in alcuni dei nostri articoli.
4.6 Perché quando uccidete un animale a scopi di ricerca parlate di “sacrificio”?
Sarà forse perché la cosa NON PIACE né all’animale né a noi?