Mi sono reso conto troppo tardi che a novembre dell’anno scorso cadeva il trentennale dalla pubblicazione di una delle storie dell’Uomo Ragno più belle di sempre, L’ultima caccia di Kraven, scritta da J.M. DeMatteis e disegnata da Mike Zeck.
Colgo in ritardo l’occasione per riproporre questo articolo che avevo tradotto quasi dieci anni fa per una precedente incarnazione del blog e che è tratto dal sito ufficiale dello stesso J.M.DeMatteis (al tempo in realtà era pubblicata sul suo – ora defunto – blog Amazon) in cui l’autore, raccontando i dietro le quinte di questa storia così iconica e celebrata, ci offre una riflessione sincera, appassionante e forse anche un po’ commovente su cosa significa davvero essere un narratore.
[Intanto, se vi interessa la più recente ristampa di questo capolavoro, potete cliccare qui]
La vera storia dell’Ultima Caccia di Kraven
Confessione: io non ho scritto L’Ultima caccia di Kraven.
Agli scrittori piace credere di avere il controllo completo delle loro opere, ma questa è solo una confortante bugia. Dopo più di venticinque anni passati a raccontare storie, mi è ormai estremamente – e a volte dolorosamente – chiaro che io sono solo un veicolo, un mezzo attraverso il quale la storia esce alla luce del sole. Ma è la storia stessa che crea la narrazione. Se vi sembra che stia dicendo che le storie hanno una vita propria, beh… è esattamente così. Sono convinto che le storie sono creature viventi: si muovono, pensano, respirano. Magari non nello stesso modo in cui lo facciamo noi esseri in carne e ossa, ma in qualche insondabile maniera, in qualche insondabile reame, queste creature che chiamiamo Storie – e qui la S maiuscola penso sia d’obbligo – esistono. E così esistono i personaggi che le popolano. E sono le storie – non gli scrittori, gli artisti, o gli editor – ad avere il controllo. Alcuni di questi Mondi Immaginari decidono di emergere, completamente formati, in una luce splendente di energia creativa. Altri – come la Saga di Kraven – beh, devono prendersi il loro tempo.
Fu lunga la strada dalla prima scintilla di ispirazione, apparsa all’incirca intorno al 1984 o ‘85, fino al lavoro finito. Se fossi dipeso da me – e grazie al cielo così non è stato – l’idea originale avrebbe visto le stampe come miniserie di Wonder Man (Simon Williams – sconfitto in battaglia da suo fratello, il Sinistro Mietitore – si risveglia in una bara, si libera scavando e scopre di essere stato sepolto vivo per mesi). Ma la Storia la sapeva più lunga. Sapeva che ci voleva del tempo perché fermentasse nel mio inconscio e trovasse la forma più adatta. Tom De Falco – allora produttore esecutivo della Marvel – era della stessa opinione. Quando gli proposi la mia idea per Wonder Man, la rifiutò immediatamente. Ma c’era qualcosa in quella trovata del “ritorno dalla tomba” destinata a rimanere.
La mia tappa successiva fu, alcuni mesi dopo, la DC comics, dove proposi all’editor Len Wein (che allora supervisionava gli albi di Batman) quella che pensavo fosse un’idea incredibile: il Joker uccide Batman – o perlomeno crede di averlo fatto – e, una volta eliminata la sua unica ragione di vita, la mente del criminale cede. Ovviamente il Joker è già un malato mentale, quindi quando la sua mente cede… guarisce. Batman nel frattempo è sepolto, e quando, settimane dopo, riesce a liberarsi scavando, la nuova fragile esistenza del Joker finisce tragicamente sottosopra. Len al tempo aveva un’altra storia di Batman sulla sua scrivania – qualcosa chiamato The Killing Joke, scritto da un nuovo autore britannico di nome Alan Moore (chissà poi lui che fine avrà fatto?) e pensò che gli elementi riguardanti il Joker nella mia storia si sovrapponessero ad alcuni elementi di quella di Alan.
Un rifiuto. Di nuovo. (Sono riuscito a recuperare l’idea della “Guarigione” circa dieci anni dopo – ed è diventata una delle mie preferite)
Ero deluso – ma sospetto che la Storia fosse piuttosto soddisfatta dell’accaduto. Sapeva che l’ora non era ancora giunta. Sapeva di cosa aveva bisogno prima di emergere. E così attese pazientemente, mentre io… –
Beh, io la riscrissi. Come storia dell’Uomo Ragno? No. Ancora una volta come storia di Batman. Accantonai il Joker e lo sostituii con Hugo Strange. Mi ricordai di una storia classica di Steve Englehart e Marshall Rogers in cui Hugo Strange indossava – credo per un paio di pagine – il costume di Batman. E pensai: non sarebbe interessante se Hugo Strange fosse colui che apparentemente uccide Batman e, nel pieno della sua arroganza, decidesse di diventare Batman, indossare il costume, ricoprirne il ruolo al fine di provare la propria superiorità? Ero convinto di avere una storia che nessun editor avrebbe potuto rifiutare.
A quel tempo, Len Wein era diventato un freelance e Denny O’Neil l’aveva rimpiazzato come editor di Batman. Indovinate un po’?
Denny la rifiutò.
Così ora avevo un’idea rifiutata tre volte da tre dei migliori editor del settore. Forse, pensai, sono una delusione. Forse dovrei solo arrendermi e andare avanti.
Ma la storia non me l’avrebbe lasciato fare.
Ero frustrato, per non dire di peggio, per via di tutte quelle porte in faccia, ma questo seme di un’idea – beh, a quel punto era germogliato e stava mettendo su rami e foglie – continuava a crescere, espandendosi al suo ritmo, nei suoi tempi. Sapeva, sebbene io ne fossi ancora all’oscuro, che presto avrebbe trovato la forma e, cosa ancora più importante, i personaggi, che aveva cercato da sempre.
Autunno del 1986. Un giorno ero in visita agli uffici della Marvel quando Jim Owsley, curatore degli albi dell’Uomo Ragno, e Tom DeFalco (Cosa? Di nuovo lui?) mi invitarono a pranzo fuori. Volevano che mi occupassi di Spectacular Spider-Man, ma io ero riluttante all’idea di legarmi a un’altra testata mensile. Owsley e De Falco furono insistenti. Mostrai incertezza. Ce la misero tutta. Cedetti.
E, il tempo di tornare a casa, mi resi conto di che colpo di fortuna avessi avuto. Ora avevo un’altra occasione, probabilmente l’ultima, per portare a conclusione questa idea del “Ritorno dalla tomba”. Ancora più importante: scoprii, lavorando al soggetto, che l’Uomo Ragno – che aveva da poco sposato Mary Jane – era una scelta molto migliore sia di Wonder Man che di Batman. Peter Parker è forse il protagonista più autentico sul piano psicologico ed emozionale che si sia mai visto in qualunque universo supereroistico. Sotto quella maschera, è confuso, dubbioso, umano in maniera commovente, come la gente che legge – e scrive – di lui: l’Uomo Comune per antonomasia. E questo amore da Uomo Comune per la sua nuova moglie, per la nuova vita che stavano costruendo insieme, fu il carburante emotivo che accese la storia. Era la presenza di Mary Jane, il suo cuore e la sua anima, che avrebbero raggiunto le profondità del cuore e dell’anima di Peter, costringendolo a riemergere da quella bara, fuori dalla tomba, alla luce.
E così nacque L’Ultima caccia di Kraven.
Beh, non esattamente. Vedete, Kraven ancora non era previsto. Da vero genietto quale sono, mi dissi: okay, ovviamente non posso usare Hugo Strange. Perché non creare il mio cattivo – un cattivo tutto nuovo – per interpretare il suo ruolo nella storia? E così feci. (Non chiedetemi il nome della mia nuova brillante creazione… o qualunque altra cosa su di lui… perché, onestamente, non ricordo nulla!) La storia giunse a Owsley. Lui la adorò. “Facciamola” disse. Ero estasiato. Il viaggio era finalmente compiuto.
Beh, forse era compiuto per me – ma non per la Storia. C’era un ultimo elemento di cui aveva bisogno per completarsi.
Un pomeriggio ero seduto nel mio ufficio a fare ciò che tutti gli scrittori sanno fare meglio: evitare il lavoro, perdere tempo. Internet – il più grande strumento per perder tempo della storia dell’umanità – ancora non esisteva, quindi stavo sfogliando alcuni fumetti che avevo impilato sul pavimento. Presi un Marvel Universe Handbook. Mi fermai, senza un motivo particolare, alla sezione dedicata a Kraven il cacciatore.
Vi prego di capire che non avevo alcun interesse per Kraven. Anzi, avevo sempre pensato che fosse uno dei nemici più grossolani e privi di interesse della galleria dell’Uomo Ragno. Non poteva permettersi nemmeno di allacciare le scarpe a gente del calibro di Doc Ock o Goblin.
Ma sepolto in questa sezione dell’handbook c’era questo fatto intrigante: Kraven – era russo. (Tuttora non so se ciò fosse stato stabilito in una storia in continuity o se lo scrittore di quella particolare sezione lo avesse inserito per un capriccio)
Russo? Russo!
Perché questo fatto avrebbe dovuto emozionarmi tanto? Una parola: Dostoevskij. Quando lessi Delitto e Castigo e I fratelli Karamazov al liceo, si insinuarono nel mio cervello, strisciando lungo il mio sistema nervoso… e mi fecero a brandelli. Nessun altro romanziere aveva mai esplorato la sbalorditiva dualità dell’esistenza, illuminato le mistiche altezze e i deprecabili abissi del cuore umano, con l’abilità di Dostoevskij. L’anima Russa, così come veniva mostrata nei suoi romanzi, era davvero l’Anima Universale. Era la mia anima.
E Kraven era russo.
In un solo istante, compresi Sergei Kravinoff. In un solo istante, tutta la storia cambiò prospettiva. In un solo istante, chiamai Owsley, gli dissi di dimenticarsi del Nuovo Cattivo. Questa era una storia di Kraven il cacciatore.
Jim non era elettrizzato all’idea. A lui piaceva il nuovo nemico. Ma, Dio lo benedica, mi lasciò fare a modo mio.
E ora la storia era completa, giusto?
Quasi. Vedete, Owsley aveva persuaso Mike Zeck a disegnare Spectacular. Io e Mike avevamo lavorato insieme per qualche anno su Capitan America. Posso pensare a un pungo di disegnatori di supereroi bravi quando Zeck, ma nemmeno a uno migliore. Lo stile di Mike è fluido, energico, profondamente emozionale… e racconta una storia con una spontaneità tale che le sceneggiature da lui disegnate sembrano altrettanto spontanee. Mike lasciò la serie di Cap (per disegnare le Guerre Segreteoriginali) proprio quando avevamo appena iniziato il nostro percorso collaborativo – ed ero eccitato dalla possibilità di riprendere da dove c’eravamo fermati.
Ho giocato questa partita abbastanza a lungo per sapere che la chimica scrittore/disegnatore non può essere creata o forzata: o c’è, o non c’è. Con Mike, c’era. Se un qualunque altro artista avesse disegnato questa storia – anche se ogni singolo punto dell’intreccio, ogni singola parola, fosse stata esattamente la stessa – non avrebbe commosso le persone nello stesso modo né ottenuto l’entusiastico consenso che ancora riscuote, più di venti anni dopo la sua creazione. Non sarebbe stata L’Ultima caccia di Kraven (a proposito, il titolo non fu mio. Io l’avevo chiamata Tremenda Simmetria – in onore di un altro dei miei eroi letterari, William Blake. Fu Jim Salicrup, che si assunse il lavoro di editing quando Owsley lasciò lo staff, che se ne uscì con L’Ultima caccia di Kraven. Salicrup fu anche il tipo che ebbe un’idea geniale che da allora in poi tutti avrebbero copiato: dispiegare la storia in sei parti attraversi i tre albi ragneschi, nel corso di due mesi. Oggi siamo abituati a vedere questa soluzione. Nel 1987 era rivoluzionaria.)
Poiché Zeck era a bordo, decisi di inserire nel mix un nemico di Capitan America che creammo inseme – il ratto umano chiamato Vermin. Una decisione casuale (beh, sembrava casuale a me; ma sospetto che la Storia la pensasse diversamente) che si dimostrò estremamente importante: Vermin finì con l’essere l’elemento portante, che evidenziava il contrasto tra la visione che Peter Parker aveva dell’Uomo Ragno e l’immagine distorta che ne aveva Kraven.
Ora ecco la parte più strana: negli anni che erano passati da quando avevo partorito l’idea originale su Wonder Man, la mia vita personale era andata proverbialmente a rotoli. Vi risparmierò i dettagli sporchi: diciamo solo che ero in un periodo della mia vita in cui ogni giorno era una fatica erculea. Mi sentivo sepolto vivo proprio come Peter Parker, un abitante degli abissi proprio come Vermin; perso, disperato, distrutto proprio come Sergei Kravinoff.
In breve, per me era un periodo terribile – ma il periodo perfetto per scrivere la storia. Se avessi creato una versione dell’Ultima Caccia qualche anno prima, o qualche anno dopo (quando la mia vita si era miracolosamente risistemata da sola), non sarebbe stata la stessa cosa. I miei conflitti personale, riflessi nei conflitti dei nostri tre personaggi, furono, penso, ciò che diede alla scrittura un tale senso di necessità e una tale onestà emotiva. (Non so cosa ispirò il brillante lavoro di Zeck, ma spero che non fosse qualcosa di altrettanto straziante.)
E allora ditemi: di chi è esattamente il merito? Chi scrisse la storia in realtà? Pensavo di essere stato io – ma, al tempo stesso, c’era qualcosa che era cresciuto, si era evoluto, era emerso a suo tempo, quando le condizioni creative erano assolutamente perfette.
Oh, incasserò gli assegni. Accetterò anche i complimenti. Ma, nel mio cuore, so che c’è Qualcosa di Più Grande lì fuori, che esprime la sua magia attraverso di me… e attraverso noi tutti che ci chiamiamo scrittori.
Le storie hanno una vita propria.
E non vorrei che fosse altrimenti.
© copyright 2008 J.M. DeMatteis
Traduzione: Alessandro Diele