Dylan Dog: Mana Cerace (DYD #409-410-411): perché non funziona

È uscito pochi giorni fa in edicola Dylan Dog #411, capitolo di chiusura della cosiddetta Trilogia del Buio, miniserie in tre numeri dedicata a Mana Cerace. L’avventura introduce nella nuova continuity sorta all’indomani del numero 400 la storica nemesi di Dylan, l’uomo del buio apparso per la prima volta nel 1989 sul numero 34 della serie (Il buio, per l’appunto). A riportarlo in auge è stata chiamata proprio la coppia che aveva firmato la sua prima apparizione: ai testi Claudio Chiaverotti, ai disegni Piero Dall’Agnol, coadiuvato per l’occasione da Francesco Cattani. Ma, nonostante un team tanto promettente, qualcosa è andato storto.

La storia in poche righe: Mana Cerace, l’uomo del buio, torna a colpire, evocato da un gruppo di fanatici. La sua opera è resa più efficace da condizioni ottimali: tutta la città di Londra è infatti colpita da un lungo blackout. A opporsi alle sue malefatte c’è ancora una volta Dylan Dog, che aveva già avuto a che fare con lui anni addietro, quando era ancora un poliziotto al servizio di Scotland Yard…

Ci sono due ordini di problemi per cui Dylan Dog: Mana Cerace non funziona, ma sono talmente interlacciati tra loro che è anche difficile capire in quali frangenti l’uno abbia influenzato l’altro.

Problema 1: In che mondo viviamo?

Dylan Dog e, sullo sfondo, una nube col volto di Mana Cerace (dettaglio cover Dylan Dog 410)

Il problema principale, a mio avviso, è di natura produttiva: è noto che la miniserie non era stata pensata per la serie regolare, ma per il Maxi Dylan Dog: Old Boy (ora Dylan Dog: Oldboy), il periodico che raccoglie storie ambientate nella continuity narrativa classica del personaggio, vale a dire quella prima del numero 325 (settembre 2013).

(A margine, questa cosa che ci sia gente ancora così legata a uno status quo finito da 7 anni dà da pensare.)

La ricollocazione nell’universo post-meteora incasina tutto. Gli eventi narrati originariamente sui numeri 34 e 68 della serie regolare diventano backstory e si sono svolti in maniera pressoché identica a come li conosciamo ma nel passato, quando Dylan era ancora un poliziotto. Per veicolare questa informazione, la miniserie è costellata di flashback che a volte richiamano persino la struttura delle vignette originali.

Questi flashback disseminati nella narrazione però non hanno equilibrio: si dilungano troppo per essere dei semplici richiami alle storie originali ma non abbastanza per permetterci di cogliere gli elementi che da quelle storie li differenziano o anche solo di farci vivere in maniera efficace l’accaduto se quelle storie non le abbiamo mai lette.

La ricollocazione ha conseguenze anche sull’impiego dei personaggi. Alcuni sono stati utilizzati senza essere adeguatamente introdotti in questo nuovo universo narrativo. Parlo in particolare del Dottor Hicks, che ha un ruolo piuttosto importante nel primo numero della miniserie; ma di lui, delle sue motivazioni e della sua creatura, che pure compare, non sappiamo praticamente nulla se non ci leggiamo prima il numero 14 di Dylan Dog, Fra la vita e la morte. Altri sono stati sostituiti: come Carpenter, che ogni tanto interpreta scene in cui originariamente c’era evidentemente Bloch e, soprattuto John Ghost, che prende il posto che nella sceneggiatura originale apparteneva a Lord Wells e fornisce invenzioni strampalate a Dylan per risolvere la situazione.

Problema 2: Ma che storia è questa?

Mana Cerace e Dylan Dog nella cover di Dylan Dog 411

Al netto di tutte queste opinabili scelte di adattamento, la miniserie in sé è anche piuttosto divertente: è ignorante, caciarona, splatterosissima e ha quella vena romantica di fondo che è un po’ il marchio di fabbrica del Dylan Dog di Chiaverotti. Chi è nostalgico di quel periodo (io un po’ lo sono) sicuramente ci troverà qualcosa di accattivante.

Escludendo un paio di forzature e colpi di scena, la maggior critica che gli si può muovere è legata al ritmo e alla struttura (e non so quanto di questo possa dipendere dal passaggio di formato da Old Boy a serie regolare). La sensazione è che questa storia non avesse bisogno di ben tre albi per essere raccontata. Fasi sin troppo dilatate e ripetitive (squartamenti vari che si accumulano stancamente, Dylan sempre in macchina che va da un posto all’altro, l’utilizzo delle tre figure femminili legate a Mana Cerace, soprattutto con il “raddoppio” di Kelly e Kimberly) si alternano a momenti improvvisamente frettolosi, come la chiusura del numero 1 e del numero 2, dove lo sprint improvviso dà la sensazione che gli autori fossero rimasti a corto di pagine per arrivare al cliffhanger di fine episodio. Una metratura più contenuta forse avrebbe permesso di focalizzare meglio le vicende e tenere un ritmo più coerente.

Parentesi sui disegni: adoro l’ultimo Dall’Agnol, ma le chine di Cattani lo banalizzano e inoltre nel terzo capitolo della trilogia ho avuto la sensazione che entrambi abbiano dovuto lavorare molto più rapidamente di quanto sarebbe stato utile per ottenere il migliore dei risultati.

In conclusione…

Insomma, per me l’esperimento è fallito, e devo ammettere che ci tenevo molto, perché Lo spettro del buio è stato uno dei miei primi Dylan Dog. Mi spiace di non aver potuto leggere il vero sequel dell’epopea di Mana Cerace così come era stato pensato da Chiaverotti e di essermi dovuto accontentare di questo rimasticaticcio con innesti esterni.

Meno male che il prossimo mese c’è Bilotta!

Per chi volesse approfondire la genesi del numero, ieri mi sono visto su youtube una bella intervista a Chiaverotti sul canale di Lucadeejay, ve la linko di seguito, spezzata in 2:

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